lunedì 16 marzo 2009

Le altre "Laika" d'Italia

È UN’IMMAGINE che bisognerà abituarsi a vedere sempre di più: capannoni nuovi di zecca con cartelli che recano la scritta "Vendesi" o "Affittasi". Le fabbriche chiudono e le zone industriali si riempiono, in maniera crescente, di fantasmi.

La crisi svuota i capannoni
Data di pubblicazione: 15.03.2009
Autore: Davide Carlucci

Per capire l’entità del fenomeno non bisogna attenersi tanto ai dati ufficiali, che registrano ancora poco. La Fiaip segnala, per esempio, un calo superiore al sette per cento per quanto riguarda le compravendite di capannoni.

Nomisma dice che anche i canoni sono in discesa, meno 1,1 per cento nel secondo semestre 2008, con un punte del meno 4,4 in provincia di Bergamo. Parlando con gli operatori del settore, però, si raccoglie molto più pessimismo. Valerio Uboldi sta tentando di vendere un capannone da 13mila metri quadrati, ultimato nel 2005, a Bariana, frazione di Garbagnate. «I prezzi sono calati del dieci per cento e in alcune aree si sono anche dimezzati. Siamo tornati ai valori del 2000. Io sto mettendo su un’azienda agricola per dare un futuro ai miei figli».
Per Legambiente è anche colpa della deregulation voluta dalla Regione. «In Lombardia nel decennio 1997-2006 - spiega Damiano Di Simine basandosi su dati Istat - si sono costruiti quasi 32.000 capannoni: una media di due all’anno in ogni Comune della nostra regione. Ora rischiano di diventare un tipico segno del nostro paesaggio, dove si costruiscono moltissimi contenitori, spesso in mezzo alla campagna, preoccupandosi molto poco del contenuto». È l’eredità, continua Di Simine, di una legislazione generosa: «Programmi integrati di intervento, piani attuativi in variante, sportelli unici, varianti ex-legge 23/97... E poi anche la legge Tremonti. Tutto va bene per realizzare insediamenti produttivi senza criterio».

Ma è anche nelle città che ora rischiano di aggiungersi nuovi strati di archeologia industriale. A Bollate, a due passi dal cimitero e di fronte alla Lidl, c’è la Syntess, industria tessile che gli operai avevano tentato eroicamente di salvare dalla chiusura provando ad acquisirla e a gestirla in proprio. Non ce l’hanno fatta e ora nel cortile dell’azienda un coniglio la fa da padrone. «È il mio - racconta la signora Lucia, la custode di origini campane - lo tengo qui, mi fa compagnia». A Garbagnate, invece, è in vendita lo stabilimento della Tc sistema servizi, azienda del settore hi-tech che a luglio ha licenziato 27 dipendenti. Le fabbriche sono transeunti e in ogni angolo della Lombardia ne restano le tracce. Come a Vimercate, dove campeggiano ancora le insegne della S. A., industria di lino e canapa, memoria di un’industria tessile che non c’è più. A Carpiano, invece, quel che resta di un grande allevamento intensivo gestito da un consorzio sono quattro enormi capannoni sulla Binaschese, quattro ecomostri in piena campagna. Quelli che un tempo erano gli uffici ora sono il ritrovo delle prostitute e dei loro clienti, come dimostrano i divani e i materassi sistemati qua e là. «Quei capannoni si vendono con tutti i terreni - dice il benzinaio della Q8 - quindici milioni di euro e te li compri tutti». Più avanti c’è la zona industriale del paese. Edifici appena ultimati, alcuni con le porte ancora imballate. I cartelli con la scritta vendesi, però, ormai non si notano quasi più: sono finiti per terra, piegati dal vento e dalla pioggia.

Da Magenta ad Arcore, da Zingonia ad Arese, nei nuovi insediamenti logistici del Lodigiano, ad Agrate e a Burago, in Brianza, la crisi lascia alle società immobiliari un grande patrimonio da vendere. Ma prima di trovare un acquirente o un affittuario si aspettano mesi e mesi, e il prezzo intanto scende. E più sono grandi gli insediamenti, più è difficile piazzarli. «Il dato su cui riflettere è questo - attacca Mario Agostinelli, capogruppo di Rifondazione in Regione - in Lombardia ci sono ormai 27 milioni di metri quadrati di aree dismesse». Maurizio Martina, segretario lombardo del Pd, punta l’indice contro la legge Tremonti, che ha consentito di costruire aree industriali con meno vincoli ma senza programmazione. «Gli effetti di questa incapacità di governare il territorio ora sono visibili. Basta andare, per esempio, in alcune zone della provincia di Bergamo, per vedere quanto si sia sacrificato l’ambiente senza creare ricchezza. Non è così che si incentiva il sistema produttivo: una riflessione su alcuni errori del passato va compiuta. E per il futuro, prima di andare a toccare il verde, si riqualifichino le aree ex industriali». L’assessore regionale all’Urbanistica, il leghista Davide Boni, ammette: «In passato il problema c’è stato, non l’ho mai nascosto. Si è costruito troppo sfruttando tutte le agevolazioni esistenti sul manifatturiero. Per il futuro rivedremo tutto, ci saranno controlli maggiori: bisogna ricominciare a utilizzare i capannoni che già ci sono e ridurre le semplificazioni che hanno consentito uno sviluppo disordinato».

postilla
Altro che “da Magenta a Arcore …” eccetera, come recita l’articolo: anche scavalcando il Po, gli Appennini, e addirittura Tirreno o Stretto di Messina, salta all’occhio la criminale idiozia delle ineluttabili zone produttive che servono quasi esclusivamente a “produrre” sé stesse. Basta farci un giretto in certe mattine per capire che il valore aggiunto della cementificazione e sbancamento di terreni non sta nei posti di lavoro o nella trasformazione di materie prime in prodotti finiti o semilavorati, ma nel solito “sviluppo del territorio”. Che ora con la crisi mostra più impudiche che mai le chiappe scoperte della foia trasformatrice di certi nostrani “policy makers ”, di amministrazioni abituate a reagire in automatico a qualunque proposta di questo tipo considerandola fonte di “ricchezza”. Come poi insegnano le crisi più “avanzate”, in testa quella americana, a svuotarsi ci sono poi anche i parchi per uffici, e dulcis in fundo anche le cattedrali del consumo, tirate su in fretta e furia contro ogni logica dentro a bacini di potenziali consumatori di fatto virtuali (ogni scatolone presenta i conti come se il bacino di utenza fosse suo in esclusiva), e che ora giocoforza consumeranno ancora di meno. È troppo tardi per aspettarsi un ripensamento, magari anche solo delle logiche più perverse come la concessione delle fasce autostradali per insediamenti produttivo-commerciali FUORI dai piani regolatori? Una pensata per ora solo lombarda, ma che visti i precedenti forse non mancherà di suscitare anche l’entusiasmo di altre regioni di vari colori (f.b.)

Articolo: Eddyburg
 

Far tornare le api a volare a San Casciano!

L’ape, il simbolo della nostra lista, richiama l’obiettivo di far tornare le api a volare a San Casciano. Un mondo senza api non è a misura d’uomo, è avvelenato e ostile alla vita. L’ape sarà anche il nostro modello di comportamento: le api sono laboriose, sociali, pacifiche e hanno bisogno di un ambiente pulito.

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