mercoledì 7 aprile 2010

La politica delle multinazionali dell’agricoltura in India

di Federica Araco
www.libermente.eu

Bioimperialismo contro biodiversità

La diversità biologica è la principale caratteristica della natura e il fondamento dell’equilibrio ambientale dell’intero pianeta. Ecosistemi e habitat differenti hanno generato forme di vita e culture caratterizzate da saperi locali in grado di ricavare i mezzi di sussistenza dalle ricchezze spontaneamente offerte dalla natura. La profonda conoscenza del patrimonio ecologico universale, acquisita attraverso i secoli e preservata con grande considerazione dalle popolazioni indigene, ha consentito di sviluppare forme di produzione integrata tra diversi ecosistemi. Questa visione olistica garantisce da sempre la sostenibilità dei processi produttivi, assicurando molteplici forme di sostentamento per bisogni alimentari, culturali ed economici diversificati.

In seguito alla Rivoluzione Verde degli anni ‘50 e ‘60 in molte regioni asiatiche, tra cui l’India, sono stati introdotti modelli di produzione agricola basati sulla monocoltura, sull’impiego massiccio di pesticidi e diserbanti e su una politica di mercato dettata dal monopolio di poche multinazionali. Questa forma di assoggettamento, definita “bioimperialismo”, ha imposto metodi di produzione intensiva in molti territori del sud del pianeta.

La realizzazione di imponenti opere idriche, promossa da alcune multinazionali occidentali per privatizzare l’acqua ad uso agricolo e alimentare, causa ogni anno l’allagamento di vaste aree con la conseguente scomparsa di interi ecosistemi e la migrazione forzata di popolazioni. Il disboscamento di zone di foresta pluviale e la conversione alla monocoltura di alberi a crescita veloce per il commercio del legname creano da decenni seri danni al suolo, privato di preziosi elementi nutritivi e non più in grado di drenare le acquee piovane, e impediscono agli indigeni di procurarsi alimenti e piante officinali per uso medico dalle aree boschive. In agricoltura l’enorme diffusione di sementi geneticamente modificati, brevettati e privatizzati, ha dato vita a estese monocolture ad alta resa per le logiche del mercato internazionale ma assai poco resistenti e molto costose per i contadini: all’elevato prezzo delle semenze, applicato senza modifiche al mercato americano, africano, europeo e asiatico, si aggiungono i costi dei macchinari agricoli indispensabili per lavorare ampi appezzamenti di terra, l’impiego di carburante fossile per il loro utilizzo e i prodotti chimici adoperati per preservare il raccolto dall’attacco di batteri o agenti atmosferici.

Questa politica sta causando una forte instabilità ecologica, sociale ed economica e ha gettato su molte comunità indigene lo spettro della fame: numerose popolazioni sono state cacciate dal loro habitat naturale e costrette ad abbandonare i tradizionali modelli di produzione integrata. Saperi e tradizioni locali, ecosistemi e metodi di produzione sostenibile rischiano di scomparire del tutto, con gravissime conseguenze per il tessuto sociale e culturale di ampie aree e per la stabilità alimentare, climatica ed idrologica dell'intero pianeta.



1. Agricoltura integrata: istruzioni per l’uso

Nei modelli di produzione integrata ogni ecosistema è considerato come un complesso organismo fondato sulla biodiversità e sull’equilibrio dinamico di ogni sua componente la cui esistenza, e il cui regolare funzionamento, derivano dalla possibilità di integrazione con gli altri ecosistemi. In questa prospettiva “olistica”, sostenibile per l’ambiente e per soddisfare il fabbisogno alimentare delle popolazioni indigene, silvicoltura, agricoltura e allevamento sono fortemente correlati e la resa di ognuno dipende direttamente da questa reciproca integrazione.

Le aree forestali, fondamentali per la diversità biologica di un territorio e per il drenaggio del suolo dalle acque piovane, costituiscono un aspetto fondamentale della produzione agricola e dell’allevamento: esse forniscono acqua, legname, utilizzato come materiale edile e per la costruzione di carri e attrezzi agricoli oltre che come combustibile, cibo, piante officinali per uso medico e foraggio. Gran parte della biomassa presente nelle foreste viene riutilizzata come fonte di energia rinnovabile in ambito agricolo e domestico (biogas), o come fertilizzante organico. L’agricoltura, d’altra parte, garantisce il soddisfacimento della quasi totalità del fabbisogno alimentare vegetariano, mentre i suoi prodotti non commestibili vengono reintegrati nel ciclo come compost o come mangime per gli animali impiegati nei campi. Il ruolo svolto da questi ultimi è altrettanto fondamentale per il mantenimento delle colture ecologiche: i sottoprodotti agricoli nutrono gli animali, il letame da loro prodotto nutre il terreno concimando i raccolti, in un sistema di reciprocità.

I suoli concimati naturalmente sono ricchissimi di piccoli organismi, fondamentali per migliorarne la fertilità e garantirne adeguata aerazione e corretto drenaggio. Inoltre due terzi della domanda di energia dei villaggi indiani è soddisfatta dal combustibile ricavato dallo sterco dei circa 80 milioni di bovini con una capacità termica equivalente a 27 milioni di tonnellate di kerosene, 35 milioni di tonnellate di carbone, 68 milioni di tonnellate di legna.
Questi sistemi di produzione integrata basano il loro funzionamento su inputs organici interni garantiti da una profonda conoscenza dei cicli naturali e da un rispetto innato verso la terra mater, contribuendo in modo determinante al soddisfacimento dei bisogni alimentari, sociali, economici e culturali delle popolazioni locali.

La visione integrata dei vari cicli produttivi rappresenta, inoltre, un aspetto fondamentale del patrimonio filosofico, religioso e culturale di molte popolazioni. In India garantire cibo a tutti gli esseri viventi è una condizione fondamentale per poter salvaguardare la sicurezza alimentare di ogni singola comunità. Tale convinzione affonda le proprie radici nei testi sacri dell’India antica, nei quali è detto che l’Universo sia stato creato da Dio a vantaggio di tutti, e non solamente del genere umano: ogni forma di vita ha il diritto di procurarsi cibo e spazio vitale all’interno di un sistema organico e integrato in grado di ricomprendere armoniosamente tutte le specie esistenti. Rabindranath Tagore individua nella vita della foresta il modello di evoluzione sociale e culturale della civiltà indiana: venerata come Araṇyānī, dea, sorgente primaria di vita e fertilità, la foresta ha per secoli rappresentato il principio femminile della diversità, dell’armonia e della creatività infinita della natura vivente. La sacralità di questo principio fondante la cosmogonia indiana antica si è trasmessa nei secoli e ha condotto molte popolazioni dell’India a misurare il grado evolutivo dell’umanità in base alla sua capacità di vivere in armonia con i ritmi naturali. La grande conservazione delle aree forestali e boschive in sudasia esprime la profonda gratitudine delle comunità tribali e contadine nei confronti della loro “Grande Madre”, la cui rispettosa salvaguardia è essenziale per la sopravvivenza di tutti i suoi figli.
Una conoscenza adeguata dei cicli naturali e delle infinite potenzialità di creazione e rigenerazione dell’Universo ha consentito alle popolazioni indigene di sviluppare vaste competenze negli ambiti della scienza medica erboristica e della scienza naturale.

Il ruolo delle donne nella visione ecologista è fondamentale per l’utilizzo e la gestione/smistamento dei prodotti forestali e agricoli: in alcune regioni himalayane, ad esempio, le donne più anziane trasmettono alle giovani della tribù l’arte della potatura e della raccolta di arbusti, fiori e frutti silvestri in base a precise fasi lunari e cicli stagionali.
In tutta l’India la raccolta di cibo e prodotti agricoli da destinare agli animali è un compito generalmente affidato alle donne, esperte conoscitrici della diversità biologica della natura e, per questo, dedite alla sua conservazione. Nell’allevamento il compito femminile è quello di nutrire e mungere i bovini trasformandone parte del ricavato in alimenti caseari tradizionali (yogurt solido e liquido, burro e ghee). Il contributo maschile, invece, sembra essersi maggiormente concentrato nella cura del pascolo e nel lavoro della terra in un sistema di complementarietà e reciprocità fondato sull’armonia tra il lavoro dell’uomo, quello della donna e la natura.

La sistematica svalutazione delle economie di sussistenza basate su modelli produttivi altamente sostenibili e sull’integrazione tra diversi ecosistemi ha causato profonde crisi etniche e culturali, rivoluzionando metodi, equilibri e tradizioni millenarie. L’esclusione del lavoro femminile, la trasformazione della natura da terra mater in terra nullius e la sostituzione delle antiche tecniche di produzione integrata con monocolture intensive finalizzate all’esportazione hanno lasciato da parte il ruolo delle donne nella natura e nella società, affiancando ad una grave crisi ecologica e ambientale i profondi disagi della disuguaglianza e dell’emarginazione.



2. La politica delle multinazionali dell’agricoltura in India: monocolture, brevetti, biotecnologie

L’inarrestabile processo di industrializzazione dell’agricoltura quale diretta conseguenza della globalizzazione economica e dell’allargamento dei mercati ha trasformato profondamente il rapporto tra uomo e natura nei cosiddetti paesi “in via di sviluppo”. Dagli anni ‘50 e ‘60 molte regioni del sud del mondo sono state investite da vere e proprie “rivoluzioni” finanziate dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e poche multinazionali occidentali, nel nome della “modernizzazione”.

In ambito agricolo si è verificata la cosiddetta “Rivoluzione Verde”, i cui rendimenti sono strettamente legati alla sostituzione delle produzioni integrate basate sulla biodiversità con monocolture intensive di sementi brevettati e geneticamente modificati. Questo sistema di produzione intensivo presuppone un massiccio impiego di pesticidi ed erbicidi chimici, carburanti derivati da energie fossili e sistemi di irrigazione intensiva. I modelli di integrazione agroforestale sviluppati nei secoli dalle popolazioni locali sono stati sistematicamente eliminati perché giudicati “improduttivi” e non scientifici, e sostituiti da piantagioni su larga scala di alberi e raccolti finalizzati all’esportazione e al commercio internazionale. L’ingegneria genetica ha condotto numerose ricerche in ambito biologico producendo in laboratorio semi “ad alta resa” (High Yielding Varieties, HYV), di fondamentale importanza per l’intero sistema produttivo. Queste nuove sementi per poter crescere hanno bisogno di ingenti quantitativi di fertilizzanti chimici, pesticidi e diserbanti e di una fitta rete di irrigazione intensiva. L’imposizione dell’utilizzo di semi geneticamente modificati è stata resa possibile dal Protocollo della World Trade Organization sulla proprietà intellettuale, o Trips, Trade Related Intellectual Property Rights, sancito nel 1994. In questo importante documento si attribuisce, per la prima volta nella storia dell’umanità, un diritto di proprietà sulla vita, resa merce di scambio e fonte di profitto. Le tecnologie impiegate dalle multinazionali dell’agricoltura consentono, infatti, di creare sementi sterili per impedirne la riproduzione e garantire ingenti proventi alle poche aziende “proprietarie” dei brevetti.

Il seme, considerato dalle civiltà rurali di tutto il mondo come il primo anello della catena alimentare e simbolo della sopravvivenza per le generazioni future, è stato per secoli oggetto di scambio alla parti tra agricoltori e comunità, e importante veicolo per la divulgazione e la conservazione delle tradizioni locali e dei saperi legati al lavoro dei campi.
Gli agricoltori del Sud del mondo hanno sviluppato e garantito per millenni la diversità biologica delle piante, creando con innesti e incroci circa duecentomila varietà di riso, tra cui il Basmati, il riso nero, quello rosso e lo scuro. Il protocollo sui Trips del Wto ha consentito a poche imprese di appropriarsi della conoscenza millenaria delle sementi selezionate dai contadini di tutto il mondo e farne monopolio: oggi dieci multinazionali controllano il 32% del mercato internazionale dei semi, stimato essere pari a 23 miliardi di dollari, e il 100% del mercato di semi geneticamente modificati. La RiceTec statunitense sta tentando di brevettare il riso Basmati, mentre la Monsanto ha già brevettato la soia e la senape. Questi nuovi semi “ibridi” richiedono un largo uso di pesticidi, forniti dalle stesse aziende produttrici delle sementi, e i contadini si trovano costretti ad acquistare sia i semi che i prodotti chimici. Negli ultimi anni la principale strategia economica attuata dai giganti dell’industria agricola è stata quella di aumentare l’impiego dei rimedi chimici sviluppando varietà di piante e semi resistenti ad essi. Inoltre le grandi società agrochimiche tendono a immettere nel mercato piante immuni ai pesticidi prodotti da altre ditte, in un gioco a rialzo con notevoli rischi ecologici, ambientali e con gravi conseguenze per le economie locali. I casi di suicidi tra i contadini indiani aumentano ogni anno per l’indebitamento causato sia dall’elevato costo dei prodotti chimici indispensabili per mantenere le colture annuali sia per la distruzione di interi raccolti a causa dell’uso eccessivo di alcune sostanze.

Un altro aspetto fondamentale della Rivoluzione Verde è la produzione finalizzata all’esportazione: il Protocollo Agreement on Agricolture (AoA), sancito dal Wto, legalizza l’esportazione sottocosto di cibi OGM prodotti nei paesi del nord del mondo verso i paesi più disagiati, criminalizzando i movimenti che mirano a proteggere la diversità biologica e culturale delle tradizioni locali. Questo provvedimento ha provocato una crescita esponenziale delle esportazioni alimentari dagli Stati Uniti e dai paesi europei verso i paesi in via di sviluppo, causando un grave indebitamento delle fasce più povere della popolazione, non più autosufficienti, e trasformando gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo da produttori in consumatori di cibi costosi e transgenici. L’importazione di derrate alimentari prodotte in altri paesi non solo ha distrutto i mercati locali, ma ha anche modificato profondamente le abitudini alimentari e le tradizioni culturali legate al cibo di molte popolazioni. Per poter acquistare cibo d’importazione, gli agricoltori locali sono stati costretti ad invertire i propri modelli produttivi intensificando le monocolture dei prodotti maggiormente richiesti sul mercato globale. Con l’aumento delle esportazioni la produzione di alimenti per il fabbisogno locale è drasticamente diminuita con conseguente aumento del prezzo.

In India le politiche di liberalizzazione del commercio estero hanno avuto inizio nel 1991. Dal punto di vista della produzione interna questa “apertura” ha portato ad intensificare notevolmente la produzione di alberi da frutto, fiori, carne e gamberi, costringendo molti piccoli produttori a vendere il proprio terreno alle grandi imprese per insostenibilità delle spese. Le esigenze legate all’esportazione hanno causato, inoltre, una perdita irreversibile del capitale ecologico e un declino delle varietà di specie animali e vegetali presenti sul territorio. Da circa dieci anni il Ministero dell’Agricoltura indiano offre incentivi fiscali e sussidi considerevoli per incoraggiare l’apertura dei macelli per il commercio internazionale di carne, a scapito del tradizionale allevamento di bestiame non destinato alla macellazione. L’abbattimento dei bovini, oltre a rappresentare una grave minaccia per i principi culturali locali, crea seri disagi al settore agricolo per la scarsità di letame utilizzato come fertilizzante o combustibile, e per la diminuzione della disponibilità della forza lavoro da impiegare nei campi. Altri importanti fattori che contribuiscono alla crisi dell’allevamento bovino sono la scarsità di foraggio, causata dalla deforestazione e dall’impiego di diserbanti nocivi per gran parte del nutrimento erbivoro e la privatizzazione delle terre comuni, normalmente destinate al pascolo.

Allevare gamberi, produrre carne per la macellazione, convertire i raccolti a monocolture di grano, mais, riso OGM, frutta e fiori si è rivelata essere una scelta insostenibile per un paese come l’India: nel Marzo del 1998, uno studio condotto da Business India registrava una spesa di 1.4 miliardi di rupie in valuta estera per la promozione dei prodotti da esportare contro un guadagno effettivo stimato intorno a 320 milioni di rupie; questo significa che con le entrate derivanti dalle esportazioni il subcontinente indiano riesce ad assicurarsi solo un quarto del cibo che avrebbe potuto autoprodurre.

La politica di disboscamento delle foreste pluviali e delle aree boschive ha ulteriormente contribuito a disgregare la tradizionale integrazione tra ecosistemi imponendo in molti territori la monocoltura di alberi ad alto fusto e crescita veloce per il commercio del legname. In India centinaia di ettari di boschi e foreste sono rasi al suolo ogni anno per far spazio alla coltivazione intensiva dell’eucalipto, albero che risponde particolarmente bene alle logiche del mercato internazionale di legname. Questi progetti di “silvicoltura sociale” hanno causato danni ambientali ed idrologici di grande entità, specialmente nelle regioni aride e semiaride del subcontinente. In Karnataka, ad esempio, l’albero di eucalipto è risultato completamente improduttivo sia in relazione al ciclo idrologico e alla fertilità del terreno che per il soddisfacimento delle necessità alimentari di uomini e animali: per il suo fabbisogno idrico particolarmente elevato e per l’incapacità di creare humus, la monocoltura di eucalipto ha distrutto i cicli naturali di drenaggio e umidificazione del terreno. La scelta dell’eucalipto come principale monocoltura silvestre è stata motivata dalle multinazionali del legno per la sua crescita particolarmente veloce.
Tuttavia il confronto tra i tassi di crescita di dieci specie di alberi condotto dal Dipartimento Forestale del Gujarat ha evidenziato decine di piante più redditizie dell’eucalipto sia per la rapidità di sviluppo che per la resa di biomassa da riutilizzare nella rete agroforestale e come foraggio.

L’interruzione dei collegamenti sistemici tra ecosistema forestale, agricolo e zootecnico causa una reazione a catena in tutti i tradizionali settori produttivi, non più in grado di sostenersi a vicenda e mantenere il loro millenario equilibrio. La sistematica eliminazione delle alternative di produzione sostenibile, considerate dalle multinazionali non produttive secondo le logiche di mercato, ha come obiettivo conclamato di ridurre sensibilmente la fame nel mondo.

Le ricerche condotte da Vandana Shiva e altri scienziati impegnati nella lotta per la difesa della biodiversità e dei saperi locali hanno però dimostrato che “un sistema di policoltura può produrre 100 unità di cibo da 5 unità di input, mentre quello industriale richiede 300 unità di input per produrre le stesse unità. Le 295 unità di input andate sprecate avrebbero potuto fornire 5.900 unità di cibo. È dunque la ricetta per far morire di fame la gente, non per sfamarla”.

L’insostenibilità ambientale, climatica ed idrologica e la scarsità delle risorse destinate al fabbisogno delle popolazioni locali sono conseguenze gravissime della politica delle multinazionali agrochimiche in India e in molti altri paesi in via di sviluppo. La frammentazione dei cicli produttivi e la centralità dell’esportazione secondo le logiche del mercato internazionale costituiscono una grave minaccia per la sicurezza alimentare ed ecologica dell’intero pianeta.



3. Sicurezza energetica, insicurezza alimentare

Un rapporto presentato al Parlamento Europeo nel Dicembre 2006 dai Deputati Verdi Jones e Hines, “Fuelling a Food Crisis. The impact of peak oil on food security”, indaga dettagliatamente i dati relativi all’impiego agricolo di carburanti derivati da energie fossili, vagliandone meccanismi e conseguenze sul piano economico, ambientale e della sicurezza alimentare globale.
L’industrializzazione delle campagne avvenuta negli ultimi cinquant’anni ha aumentato notevolmente l’impiego di energie fossili che si stima essere così ripartito: circa un terzo dell’energia ricavata dal greggio è utilizzata in agraria per la produzione di fertilizzanti chimici, per il carburante delle macchine agricole e per i sistemi di irrigazione intensiva; i restanti due terzi della richiesta complessiva di energia sono destinati ai processi di conservazione, imballaggio (packaging) e trasporto (import-export) delle derrate alimentari provenienti dal sud del mondo e al loro smistamento nelle reti di distribuzione locale. La profonda trasformazione dei tradizionali sistemi di agricoltura integrata in monocolture intensive per i mercati internazionali ha fatto crescere il consumo di energia impiegata nei campi di circa cento volte negli ultimi trent’anni con una proporzione pari a dieci calorie di energia fossile consumata per ogni caloria di cibo prodotto.

Al giorno d’oggi il 95% della produzione alimentare globale richiede l’utilizzo di petrolio o gas. Le aziende agrochimiche impiegano circa il 2% della disponibilità mondiale di idrocarburi per produzione, stoccaggio, pubblicità e vendita di fertilizzanti, con sensibili aumenti annuali. Circa il 40% delle proteine alimentari prodotte nel mondo sono trattate con fertilizzanti al nitrogeno. L’impiego di concimi artificiali è salito da 70 milioni di tonnellate nel 1970 a 138 milioni nel 2000 e, malgrado l’imminente peak oil, le multinazionali della chimica non sembrano interessate a invertire la rotta.

L’utilizzo di plastiche per l’imballaggio dei prodotti da esportare è un’importante componente dell’impiego di petrolchimici nel settore alimentare: è stato calcolato che nei paesi dell’Europa occidentale ogni individuo consumi circa 100 kg di polimeri di plastica ogni anno. Il mercato internazionale del plastic packaging aumenta annualmente i propri introiti del 10-15%, sostituendosi con grande rapidità ai tradizionali imballaggi per alimenti come cartone e vetro, più costosi e delicati. La plastica rappresenta anche un’importante componente nella costruzione delle macchine agricole e degli equipaggiamenti impiegati nei campi.

L’enorme sviluppo del sistema di importazione di cibo dal sud del mondo verso i mercati europei e statunitensi ha contribuito in modo determinante a rendere la sicurezza alimentare globale molto vulnerabile alle intense vicissitudini legate alla questione energetica. Circa un terzo del fabbisogno alimentare della Gran Bretagna dipende dalle importazioni di frutta, verdura e pesce dall’Africa e dall’Asia. La rete di trasporti e distribuzione dei prodotti agricoli dipende completamente dal petrolio, o dai suoi sottoprodotti, e negli ultimi venti anni non ha mai smesso di crescere. Circa un terzo dei camion in circolazione per le strade della Gran Bretagna trasportano derrate alimentari, anche se il mezzo di trasporto più utilizzato è l’aereo, il cui carburante ha subìto sensibili aumenti dal 2000.

L’impiego di derivati da energie fossili nel circuito alimentare internazionale fa si che ad un sensibile aumento del costo di petrolio e gas corrisponda un aumento dei prezzi dei generi alimentari che dipendono dalla grande distribuzione.

Per far fronte all’imminente peak oil si stanno cercando fonti di energia alternativa ai carburanti derivati da energie fossili comunemente utilizzati. Tra le proposte avanzate negli ultimi anni particolarmente importanti ai fini di questa ricerca sono quelle relative ai biocarburanti, composti ottenuti da biomassa organica. Le principali tipologie di biocarburanti impiegati per la produzione di energia sono: oli vegetali (girasole, colza, palma e soia) sia utilizzati allo stato grezzo che trattati chimicamente (etilici ed esteri metilici, biodiesel), biogas organico ed etanolo. Quest’ultimo è ottenuto dalle colture di mais, frumento, sorgo zuccherino e canna da zucchero. I vantaggi derivanti dall’impiego dei biocarburanti sono piuttosto importanti se si considera lo scarso impatto ambientale della loro combustione che non disperde anidride carbonica nell’atmosfera rilasciando solo quella contenuta nelle piante di estrazione. Queste ultime sono fonti rinnovabili presenti in grande quantità in vaste regioni del pianeta, con la possibilità di essere estese ad aree di coltura ancor più consistenti. Tutti i biocarburanti, infine, sono biodegradabili, e il loro impiego non necessita di modifiche ai veicoli meccanici esistenti sul mercato.

Ma ad una più attenta analisi scienziati e ricercatori impegnati nella causa ecologista hanno potuto metter in risalto i rischi ambientali dell’impiego di carburante ricavato dalle piante. Benché sicuramente meno dannoso dei combustibili prodotti da energie fossili, l’etanolo ottenuto dal mais, ad esempio, per esser prodotto richiede più energia di quanto sia in grado di produrre. La monocoltura intensiva di mais, inoltre, reca seri danni ambientali come l’erosione del suolo e l’inquinamento idrico e atmosferico causato dal massiccio impiego di sostanze chimiche. L’uso di etanolo per il mercato energetico dei biocarburanti, inoltre, ha influito considerevolmente sulla quotazione internazionale del mais: in Messico il costo della tortilla, che ricopre il 47% del fabbisogno alimentare di gran parte della popolazione, è aumentato da sei a diciotto pesos al chilo nei primi giorni dell’anno. Tra il 2000 e il 2006 il suo prezzo è cresciuto del 65% 32. Anche il consumo di acqua per i sistemi di irrigazione intensiva è in continua crescita, anche perché alcune colture sono state estese a zone aride o poco fertili. In molti paesi del sud del mondo vasti lotti boschivi e aree di foresta pluviale sono stati abbattuti per far spazio alle monocolture di soia e palma, assai più redditizie. L’erosione dei suoli disboscati e l’inquinamento chimico hanno prosciugato o danneggiato fortemente falde acquifere e interi corsi d’acqua, rendendoli invivibili per la fauna locale. La corsa all’accaparramento di biocarburanti, infine, rappresenta una grave minaccia alle produzioni agricole alimentari: nell’era postpetrolifera la crescente necessità di energia potrebbe sottrarre parte dei raccolti al fabbisogno nutritivo delle popolazioni a vantaggio di ben altre logiche di profitto.

Negli ultimi trent’anni in tutto il mondo sono nati numerosi movimenti spontanei e non violenti in difesa della biodiversità e dei saperi locali. Queste associazioni di liberi cittadini organizzano manifestazioni ed iniziative in difesa dei diritti naturali fondamentali, quali il cibo, l’acqua e la terra. Tra i movimenti indiani il Chipko è forse il più noto. Fondato da due allieve di Ghandi, Mira e Sarala Behn, entrambe promotrici di un'etica ecologista in alternativa alla politica spregiudicata delle multinazionali, il gruppo è sempre stato legato a storie e azioni di donne indiane pacifiste e coraggiose. La lotta principale condotta dalle donne del Chipko è contro la silvicoltura sociale e l’abbattimento delle foreste pluviali, da millenni fonte di vita e sostentamento per le popolazioni indigene dell’India. La causa ecologista e le azioni di disobbedienza civile che caratterizzano il movimento, tra cui quella di abbracciare gli alberi e istituire squadre di sorveglianza per impedirne l'abbattimento, si sono diffuse in Himachal Pradesh, Karnataka, Rajastan, Orissa e in molti villaggi dell'India centrale. Oggi il movimento conta migliaia di adesioni e riesce a mantenere la propria struttura interna organizzata in numerose comunità locali per la conservazione delle foreste e contro i progetti di sfruttamento indiscriminato delle risorse idriche del territorio.

Il movimento Navdanya, fondato da Vandana Shiva, ha invece come obiettivo fondamentale la salvaguardia della diversità biologica dei semi. In poco più di dieci anni l’associazione ha creato sedici banche comunitarie delle sementi in sei stati indiani e conta migliaia di adesioni da parte di contadini e agricoltori uniti nella lotta per la difesa della biodiversità e dei sistemi integrati di produzione agroforestale. Numerosi altri movimenti di protesta non violenta sorgono ogni anno in tutto il paese, per rivendicare i diritti delle popolazioni locali di interagire e usufruire liberamente della terra che li ospita da secoli o per chiedere ai governi dei rispettivi stati l’assegnazione di nuove terre in caso di sfollamento per la costruzione di opere idriche o deforestazione.

La lotta condotta contro la privatizzazione delle risorse e la brevettazione dei semi rappresenta per milioni di persone l’unica possibilità di difendere il proprio diritto alla vita, salvaguardare le proprie tradizioni culturali e tutelare la biodiversità della natura.



Conclusione: quale governance locale per uno sviluppo sostenibile?

In un’era di profonda crisi energetica la sicurezza alimentare è una questione di rilevanza fondamentale. Un sistema di produzione e distribuzione di cibo quasi completamente dipendente dall’utilizzo di carburanti derivati da energie fossili dovrebbe costituire una priorità politica per ogni Stato. Sia i paesi produttori, come l’India, che quelli consumatori come Stati Uniti ed Europa occidentale, hanno perso la propria autonomia per entrare a far parte della rete del mercato globale dei prodotti alimentari. Questo non solo non garantisce un adeguato controllo sulla qualità dei prodotti in circolazione, ma aumenta notevolmente il rischio di malnutrizione e i disturbi legati al cibo. Per modificare questa situazione in base alle mutate condizioni climatiche, ecologiche ed idrologiche del pianeta e assicurare le necessità primarie e socio-culturali di milioni di persone attraverso l’accesso libero e diretto a cibo e acqua, è necessario un progetto condiviso di sostenibilità ambientale e democrazia alimentare.

Limitare le importazioni di cibo e sviluppare la produzione locale incentivando i circuiti di distribuzione regionale consentirebbe non solo di limitare l’utilizzo di energie fossili per imballaggio, trasporto e coltivazioni intensive, ma contribuirebbe anche a ripristinare l’autonomia e la sicurezza alimentare di molti popoli e territori. Modi alternativi di produzione integrata, compatibile da un punto di vista ambientale, sociale, economico e culturale, sono sempre esistiti e rappresentano preziosi modelli di interazione armonica tra uomo e natura. Il recupero della memoria storica di questi antichi, ma non antiquati, sistemi di produzione sostenibile e un utilizzo consapevole delle tecnologie “pulite” sono fattori indispensabili per ottimizzare le risorse energetiche, idriche, forestali e alimentari del pianeta e sviluppare nuove fonti di energia rinnovabile con il massimo beneficio per il maggior numero di cittadini al minor costo per l’uomo e l’ambiente.



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- L’Unità, intervista a Vandana Shiva, “India pattumiera del mondo”, (6 Dicembre 2004);
 

Far tornare le api a volare a San Casciano!

L’ape, il simbolo della nostra lista, richiama l’obiettivo di far tornare le api a volare a San Casciano. Un mondo senza api non è a misura d’uomo, è avvelenato e ostile alla vita. L’ape sarà anche il nostro modello di comportamento: le api sono laboriose, sociali, pacifiche e hanno bisogno di un ambiente pulito.

San Casciano Val di Pesa • Laboratorio per un’Altra San Casciano